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18 Novembre 2022 - 18:12Un continuo viavai di gente che va, gente che arriva valigia alla mano, valzer di arrivederci, stonature di addii, requiem di storie che si sfanno, storie che riprendono. Si consuma quotidianamente sulla banchina dei treni la gran commedia del mondo, come su di un palco di teatro o un set cinematografico. Non vi è dubbio che la letteratura sia debitrice al treno, simbolo del progresso e quindi della modernità, di nuove possibilità narrative.
In effetti il treno, come poi sarà con l’auto, ha messo in moto, è proprio il caso di dirlo, uno straordinario strumento narrativo a disposizione di scrittori e romanzieri che hanno scandagliato le potenzialità narrative insite in questo nuovo prodotto della modernità. Anche i romanzi e i racconti in effetti sono viaggi, avventure nell’animo umano. Con l’avvento della locomotiva la relazione con lo spazio e il tempo è cambiata. Il treno in particolare ha rivoluzionato il viaggio, così come lo si è inteso per secoli: con questo nuovo mezzo di locomozione le distanze tra un luogo e un altro sono divenute percorribili. Come per ogni novità, vi è chi ha esaltato le possibilità offerte da questo nuovo strumento tecnologico, e chi invece ha demonizzato il treno battezzandolo come mostro, novella diavoleria.
Il treno da un punto di vista psicologico è sia evocativo di nostalgie, rimpianti, ma anche proiezione di desideri, progetti, sogni. Il treno come il futuro procede per via unidirezionale, va sempre in avanti, d’altronde chi è in treno può tornare metaforicamente indietro nel tempo nel ripensare la propria vita man mano che gli anni passano e quindi volgersi a ritroso per riguardare e meditare sul proprio passato, su quel che è stato. Un viaggio in treno può essere multidirezionale secondo il nostro stato d’animo: ripiegamento interiore se prevale un sentimento nostalgico o malinconico, oppure desiderio di avveramento di progettualità future se siamo speranzosi. D’altronde nel mirare i paesaggi della nostra Italia di là dal finestrino, chi ha un animo poetico può anche divagare con la fantasia. C’è chi invece di soffermarsi a guardare il paesaggio, preferisce immergersi nella lettura di un libro, oppure appisolarsi, oppure ancora iniziare una conversazione col vicino.
Il treno nei racconti e romanzi
Giosuè Carducci, il treno
Come tutto ciò che è nuovo e quindi non si conosce porta con sè anche inquietudine. Così Giosuè Carducci descrive l’irrompere di questo “mostro” della modernità.
Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:
corusco e fùmido
come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani;
sorvola i baratri;
poi si nasconde
per antri incogniti,
per vie profonde;
ed esce; e indomito
di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido
Carducci mette in evidenza due caratteristiche essenziali di questo nuovo mezzo di locomozione: la velocità e la potenza.
Corto viaggio sentimentale, Italo Svevo
Questo racconto è stato scritto da Italo Svevo nel 1928. Lo scrittore triestino non fece a tempo a completarlo perché morì a causa di un incidente automobilistico. Fu pubblicato postumo nel 1949. Questo l’incipit del racconto: “Con dolce violenza il signor Aghios si staccò dalla moglie e a passo celere tentò di perdersi nella folla che s’addensava all’ingresso della stazione. Bisognava abbreviare quegli addii ridicoli se prolungati fra due vecchi coniugi. Ci si trovava bensì in uno di quei posti ove tutti hanno fretta e non hanno il tempo di guardare il vicino neppure per riderne, ma il signor Aghios sentiva costituirsi nell’animo proprio il vicino che ride. Anzi lui stesso intero diveniva quel vicino. Che strano! Doveva fingere una tristezza che non sentiva, quando era pieno di gioia e di speranza e non vedeva l’ora di essere lasciato tranquillo a goderne”.
Il protagonista, il signor Aghios, si trova a conversare in treno con vari interlocutori, che ciascuno a suo modo, ne rivelano in qualche modo l’impaccio se non proprio l’inettitudine, tematica peculiare che lo scrittore triestino ha sviluppato in molte delle sue opere.
Calvino, l’avventura di un soldato
La novella è stata scritta nel 1949 e presentata ai lettori nella prima edizione di Ultimo viene il corvo. Del fante Tomagra, protagonista della vicenda, sappiamo poco o nulla, se non il fatto per l’appunto che è un fante, ma poche altre descrizioni ce lo pennellano.
“Nello scompartimento, accanto al fante Tomagra, venne a sedersi una signora alta e formosa. Una vedova provinciale, doveva essere, a giudicare dal vestito e dal velo: il vestito era di seta nera, appropriato a un lungo lutto, ma con guarnizioni e gale inutili, e il velo le passava intorno al viso piovendole dal giro d’un pesante antiquato cappello. Altri posti erano liberi, notò il fante Tomagra, nello scompartimento; e pensava che la vedova avrebbe certo scelto uno di quelli; invece, nonostante la ruvida vicinanza di lui soldato, ella venne a sedersi proprio lì, certo per via di qualche comodità del viaggiare, s’affrettò a pensare il fante, correnti d’aria o direzione della corsa”.
In questo racconto di Calvino, i due protagonisti, un uomo e una donna, il primo è un soldato, il secondo è una vedova, si incontrano nello scompartimento di un treno. Tra i due non vi sarà neanche lo scambio di una parola. La comunicazione sarà affidata ai movimenti significanti del corpo, ai gesti, agli sguardi fugaci e interrogativi, alle esplorazioni tattili. Una comunicazione sorgiva quella del corpo che precede il linguaggio verbale. E’ della tessitura di questi gesti, ricami di avvicinamenti e strappi respingenti, che vive il racconto. Emerge dalla novella come il corpo sia una straordinaria macchina semiotica che parla con la sua stessa presenza un linguaggio originario a differenza del linguaggio articolato in un sistema di segni che regola un rapporto codificato tra espressione e contenuto secondo una convenzione. Se col linguaggio verbale, con la parola, l’essere umano può infingere, il corpo nella sua verità ontologica, nella sua presenza originaria dissimula il simulacro della parola. Nel racconto la gestualità del corpo è azione che si fa comunicazione, senso e apertura verso l’altro.
Buzzati Il treno, da “In quel preciso momento”
“Soli nella grande campagna. E le rane nel fossato che cantano, e un cane lontano, e le canne scricchiolano e il tic-tac della sveglia sul comò, e dentro di me quel rombo! Però verso quest’ora passa il treno. Attraverso la rete della finestra lo vedo. A un certo punto le rane tacciono e subito sento il suo rumore lontano. Allora mi affaccio e già i due fari via in mezzo alle paludi. Il fuoco rosso della macchina, poi tutti quei finestrini illuminati. Chi ci sarà dentro? Ma faccio appena in tempo a vedere. Ogni sera, che fretta. Ogni sera sembra che abbia più fretta. Come se si vergognasse di passare di qui, tra questi poveri campi marci. E se quel giorno ti avessi ascoltato? Se mi fossi lasciata portare? Ero bella allora. Forse la pelle sarebbe ancora liscia, non avrei questa faccia gialla, se ti avessi ascoltato. Sarei una signora, forse, e me ne andrei per la città in portantina riverita dai cavalieri.
Tesoro, dove sarebbe la mamma se quel giorno fosse partita? un signore buono la condurrebbe in carrozza e le accarezzerebbe le mani, tutte coperte di brillanti? Le mani della mamma, pensi?, morbide e profumate come quelle della regina. E forse adesso non avrei la febbre che mi fa questo rombo in testa. Però tu non saresti nato. Ma io ho avuto paura, gli ho detto di no, gli ho detto, e lui da quel giorno non si è più fermato. Pensavo: un’altra volta se mai. Ed eccoci qua, piccolo mio, semplicemente non ho avuto fortuna. Siamo qui noi due, ecco tutto e non c’è la carrozza né il bravo signore, e le mani sono diventate ruvide e grosse, le mani della regina. Vuol dire che partirai tu, figlio. Una sera ti farai portare via come non ha avuto coraggio la mamma. Lontano dove l’aria è nuova e di notte non vengono zanzare. Bianco e rosso diventerai, le ragazze ti guarderanno, e mi manderai le cartoline”.
Lo scrittore bellunese racconta il rimpianto di questa madre che sola con un bambino piccolo, rimugina su quel che sarebbe potuto accadere se avesse accettato la corte di un ricco e bravo signore che avrebbe potuto assicurare un tenore di vita agiato a lei e all’infante. Il treno, preciso come una pendola, che irrompe per un breve attimo in questa campagna sperduta infestata dalle zanzare che non danno requie al suo bambino, le rievoca questa occasione perduta che avrebbe potuto cambiare la sua vita.
Marco Troisi